
Foto di LETIZIA BATTAGLIA
Tempo fa, mentre mi trovavo su un autobus che mi avrebbe condotto alle piramidi di Teotihuacan, e osservavo fuori dal finestrino le favelas sparse come un piccolo alveare lungo la strada, mi passò davanti un camion con sopra scritto “Italia”. Ero fuggita, come ho fatto ripetutamente in questi anni, ma quel minuscolo fazzoletto di terra in mezzo al Mediterraneo continuava a perseguitarmi ovunque. È una storia d’amore che si trascina lenta e logorante verso la fine, quella con il mio Paese, la storia di un amore non corrisposto, costellato di ritorni e di addii. E con la rabbia e l’amarezza di un’amante tradita desidero raccontare due storie in grado di spiegare (in parte) la ragione del mio risentimento.
Una ha inizio in provincia di Napoli, esattamente a Torre del Greco: Matteo, Gerardo, Giovanni e Antonio decidono di partire per le vacanze, una fuga on the road, che vedeva come tappe prima Nizza e poi successivamente Barcellona. In principio avevano pensato di prendere l’aereo, e invece da ultimo hanno optato per la macchina, pensando di celebrare in tal modo il loro spirito avventuriero ed esplorativo. Ma i quattro ragazzi di Torre del Greco non sono mai giunti sulla Rambla e neanche sul lungomare di Nizza. Mentre si immaginavano, da lì a pochi giorni, davanti ad una caraffa di sangria, tra risate e video selfie, il loro viaggio di vita e divertimento si è interrotto dentro quella golf grigia risucchiata dal vuoto, il 14 agosto del 2018.
Nella seconda storia siamo invece a Corinaldo, un paesino in provincia di Ancona, dove la notte del 7 Dicembre molti, troppi, ragazzi si trovano nella discoteca Lanterna azzurra. Sono tutti in attesa del loro idolo che però tarda ad arrivare. Immagino l’attesa adrenalinica, i rumori, le luci psichedeliche, quel tutto accelerato, confuso, “strippante”. Ad un certo punto però l’inizio della tragedia: qualcuno spruzza lo spray al peperoncino, inizia la fuga, le persone si accalcano verso l’uscita di sicurezza (l’unica aperta a quanto pare) ma appena fuori i due parapetti laterali in ferro vengono meno e le persone cadono l’una sull’altra. Correvano per salvarsi, per prendere aria, e invece Asia, Daniele, Benedetta, Mattia, Emma ed Eleonora in quella corsa disperata hanno trovato la morte.
Due avvenimenti, due storie di cadute. Ponti e parapetti che crollano, ragazzi che cercano la vita – che sono nel pieno della vita – e che invece non sono mai più tornati a casa. Storie di responsabilità gravi di controllanti e controllati, di proprietari, di gestori, di manutentori, amministratori, commissioni tecniche, storie di un Paese che cade in piccoli pezzi, che si frantuma in mille irrecuperabili episodi di morte. La definizione di caduta è: azione e risultato del cadere al suolo o verso il suolo. Ma chi ha scaraventato queste persone verso il suolo?
Non il fato, non il caso, non la longa manus di madre natura, né tanto meno il libero arbitrio, allora cosa? Chi?
Se guardiamo bene queste due storie sono cementate insieme da un unico grande filo rosso, dallo stesso presupposto, che ha un nome: IRRESPONSABILITÀ corale. Un fenomeno che potremmo altrimenti definire come disinteresse sociale, o menefreghismo di massa. Tutto nel nostro tessuto sociale si è ritirato come le maglie di una coperta di lana infeltrita, capace di coprire solo il particolare; tale è l’ossessione per il mediocre, per l’utile, per l’imperante narcisismo isolante, perverso, alienante. Manchiamo di “produttività”, siamo ingabbiati dalla nostra sterilità, e invece “gli individui sono espressione di un’attività produttiva quando animano ciò che toccano, quando danno vita alle proprie facoltà, ma anche alle persone e alle cose che le circondano” (ERICH FROMM, Avere o Essere). È questione di cura e premura, di diligenza, di senso civico. L’interrogativo – quale sarà la conseguenza di questa mia azione? – è la domanda cardine dalla quale potrebbe derivare un’istante di vita in più. E non è un dovere derogabile o alienabile, deve essere portato avanti individualmente, coscienziosamente da ognuno di noi. Se solo un anello della catena omertosa avesse ogni tanto il coraggio di dissociarsi e slacciarsi con forza dall’ingranaggio generale, non si arriverebbe più a pronunciare continuamente la frase “non doveva accadere”. Albert Camus, nel suo meraviglioso libro “La caduta”, scriveva: “quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”. Allora per noi evidentemente la strada è ancora lunga. Questo Paese non si rialzerà senza la bellezza e l’esempio dei nostri gesti ordinari, senza la denuncia e la resistenza quotidiana. Non rinascerà fino a quando gli intellettuali non crederanno nel valore sociale ed aggregante della cultura, non fino a quando ci imbottiremo degli steroidi del disinteresse, accanendoci sugli avanzi della mensa del “magna magna”, non fino a quando non diventeremo patrocinatori di interessi e di valori comuni.
Credo che queste due storie rappresentino al meglio la condizione attuale dell’Italia: uno stato permanente di sospensione nel vuoto. E poiché come sosteneva Anaïs Nin “l’amore non muore di morte naturale. Muore di cecità e di errori e tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità”, non mi resta altro che perdermi in nuove terre, in luoghi che forse mi accoglieranno con lo stesso grado di incuria ed ingiustizia, o forse mi andrà bene e conoscerò un po’ di pace, ma una cosa mi appare certa: il posto che abiterò potrà ferirmi solo lievemente perché può deluderci solo ciò in cui abbiamo creduto e ciò che abbiamo amato con tutta l’anima.
Mariagrazia Passamano