Dalla finestra di fronte intravedo un concentrato di bianco attraversato da piccole note di azzurro; penso sia il cielo. Io all’aperto non ci sono mai stato, mi hanno condotto qui tanti anni or sono su un camion, in una scatola, il cielo non l’ho visto mai. Certo l’ho sentito citare spesso, pare si trovi in cima ad ogni cosa; gli umani lo invocano frequentemente, gli attribuiscono un potere divino e consolatorio. Io credo invece sia solo un soffitto, niente di misterioso, un semplice soffitto.
Non mi ero mai soffermato troppo a lungo a guardare fuori dalla finestra in questi anni, per mancanza di tempo, credo. Troppe file, innumerevoli volti da rispecchiare, tutto molto frenetico e sviante. Ora invece sono giorni che non si vede nessuno, non so dove si siano cacciati tutti. Forse avranno chiuso il bagno o addirittura la città che ci ospita. Non so. Qualche giorno fa ho visto due ragazze, indossavano guanti di plastica e mascherine. Immagino fossero delle infermiere o anche dei medici. Si sono lavate insistentemente le mani, e non si sono avvicinate molto l’una all’altra. Mai vista tanta attenzione all’igiene nella mia vita, onestamente.
Questa umanità è strana: siamo passati da folle di gente impazzita a questo silenzio.
Ho atteso Faustina, ma niente. È da più di due settimane che non si vede neanche lei.
In questi anni mi è capitato di non sopportare gli umani, non che ora abbia imparato ad amarli improvvisamente, intendiamoci, ma ad essere sincero un po’ mi mancano con la loro invadenza, con tutto il casino che si portano dietro. Sento la nostalgia di tutta quella varietà di pelli, di labbra, di occhi; di quelle facce che rifletto e che cambiano espressione al mio cospetto, vorrei rivedere ancora le loro risate e i loro fiumi di lacrime. Mi manca addirittura Faustina, con le sue urla isteriche, e Ramona con le sue alitate di alcool. Mi mancano gli amici della notte, quelli che usavano questa fogna per ripararsi dal freddo, ma dove siete finiti tutti?
Ma non è che vi siete estinti?
Non credo sia in atto una guerra, non si sente mica sparare, le battaglie comportano un carico assordante di rumore. Ed io non sento niente da giorni lì fuori. Può essere che si siano inventati un’altra forma di guerra, una guerra tacita, fredda, invisibile, loro queste bestialità a volte le fanno. Non sarà mica che si saranno inventati un gioco del silenzio di massa? Se in palio poi ci fosse un monte-premio importante, venali come sono, parteciperebbero tutti di buon grado.
Comunque non so se vi stiate autopunendo o se abbiate reso l’aria talmente irrespirabile da non potere più uscire di casa, non so dove vi siate cacciati tutti, ma una cosa consentitemi di dirvela: tornate!
Questo soffitto azzurro è insostenibile senza di voi.
pensieri irriverenti
Pensieri di uno specchio in un bagno pubblico #Christmastime
E così sono giunte anche quest’anno le vacanze natalizie. La corsa agli acquisti non conosce tregua, un magma di folla impazzita invade ogni centimetro di questo piccolo bagno di città.
Si assiste ad ogni forma di istrionico imbarbarimento del concetto autentico della festività in atto.
Fioccano visi al botulino, occhi stirati come panni rinsecchiti al sole durante la stagione estiva; i pacchi dei regali strabordano dai sacchetti di plastica abnormi che vengono posati a terra in ogni dove tra residui di urina e liquidi di ogni genere.
Ogni anno è così, la frenesia aumenta, il bagno è intasato di gente, ma il temperamento tempestoso di Faustina sembra conoscere una breve fase di arresto grazie ai benefici effetti di Sua Maestà “la Tredicesima”.
– «Abbiate un poco di pazienza, pulisco e poi riapro la porta!»
Mette in fondo alla stanza il suo noto cartello e piano piano viene verso di me, esclamando: «Meglio fare presto oggi, c’è una gran confusione». Inumidisce il panno e inizia ad imbrattarmi come al solito. «’sto specchio mi pare proprio vecchio, forse andrebbe sostituito».
O forse dovremmo sostituire te, che insudici le nostre superfici da dieci lunghi anni ormai. La preferisco nervosa e disattenta, la sua finta ed improvvisa accuratezza mi dà quasi sui nervi. Le squilla il cellulare, mette i suoi guanti cicciuti dentro le tasche ed estrae il cellulare: «Pronto! Amore di nonna! Siete Partiti? Bravi! Bravi! Ed io vi aspetto. Di’ a mamma che per la vigilia ho comprato il capitone, il baccalà e le vongole. Tanti baci pure a te, amore. Fate piano, mi raccomando».
Rimette il cellulare in tasca ed inizia ad intonare una strana canzone.
– «Signora mi scusi posso entrare un secondo, sa, sono incinta, posso?», sussurra una ragazza dal fondo della stanza.
– «Ci mancherebbe, Signora. Attenzione a non cadere però, perché sennò facciamo la frittata. La vengo a prendere»
Osservando l’inconsueta gentilezza di Faustina mi viene in mente un solo pensiero: alcune persone non sono dedite all’inumanità, sono soltanto povere.
– «Vieni amore, aspettami qui da bravo. Vado a fare la pipì e poi torno da te!»
Odo in lontananza i lamenti di un piccolo cane, e i tacchi lesti della donna che l’ha legato momentaneamente al termosifone.
– «Arrivo, cucciolo! Non ti spaventare»
Nel tempo che la “sua mamma” è rinchiusa in bagno, il piccolo dà vita ad un discreto concertino di ululati alternati a ringhiate isteriche. Niente sembra dissuaderlo dalla rabbia che lo devasta in quell’interminabile attesa.
Poi finalmente la luce: “Amore! Eccomi! La tua mamma è tornata!»
Tornata? Ma saranno stati separati da pochi centimetri per due o al massimo tre minuti.
– «Il mio grande amore, vieni in braccio alla tua mamma!»
Si avvicinano alla mia visuale, in un delirio di baci e carezze. Il cagnolino è nero, di minuscola taglia, la sua mamma invece è una ragazza di trent’anni, con un caschetto biondo e dalle gote generose. L’ ossitocina straripa da ogni poro, sono nel mondo ma totalmente intoccabili, imprendibili. Forse è questo il senso ultimo dell’amore: renderci più resistenti rispetto agli urti del mondo.
Mi capita spesso di riflettere coppie, ma così innamorate raramente. È una danza di gesti di cura e di amore, nei loro sguardi rinvengo uno stato di gioia assoluta, una sorta di beatitudine, un pezzo di infinito in questo umido seminterrato.
Finalmente un momento di pace, la foga consumistica si è arrestata. Un po’ di sollievo almeno fino a domani mattina.
– «Ed io cosa avrei da festeggiare, questa mia vita misera? La mia condizione di emarginato, di rifiutato? »
È tornato Orlando. L’ho atteso a lungo in questi notti. Sono stato in pena per lui.
Si dirige verso il bagno, particolarmente barcollante, mentre continua a parlare sottovoce, non riesco a decifrare il suo monologo.
Improvvisamente sento un gran baccano, un crollo, poi più niente.
Urlo: «Orlando!», ma nessuno può sentirmi, nessuno mi sente.
Eccomi inchiodato al mio immobilismo, alla mia impotenza. Non sono che una cosa, un oggetto. Una nullità.
Sono le tre di notte e stanno tirando fuori Orlando dal bagno su una barella.
L’arrivo del Natale ha ristretto ancora di più il suo perimetro di sopportazione e dilatato, ampliato le sue ferite.
Spero sia un addio senza morte, amico mio. Mi auguro di non rivederti mai più in questo inferno.
Pensieri di uno specchio in un bagno pubblico #2
Non capisco cosa stia accadendo questo pomeriggio. Il bagno è travolto da file disumane. Ci sarà sicuramente un avvenimento importante, lì su, in centro, da qualche parte.
Faustina, la nostra donne delle pulizie, è da stamane che si dimena in imprecazioni di ogni genere.
Ha appena messo il cartello “caution wet floor” in fondo alla stanza, e ora adagio estrae il suo termos del caffè dalla borsa e inizia a bere, mentre concentrata guarda i messaggi su whatsapp. Parla da sola, si lamenta di tutti e di tutto. Rimprovera le figlie che ancora non le hanno neanche scritto: «A me nessuno mi pensa! Certo se fossi stata ricca, mi avrebbero amata tutti, invece siccome pulisco cessi, nessuno mi considera, neanche quel traditore di mio marito».
Si avvicina a me con un panno unto, mi spruzza addosso un liquido nauseabondo, e inizia a strofinare con forza: «ma pure le macchie di rossetto, ma queste che ci fanno con ‘sto specchio, ci fanno l’amore?!».
Sono ancora più sporco di prima, non vedo più nulla, e intanto lei: « È un degrado, un degrado!»
Io a Faustina voglio bene, ma le pulizie non le sa proprio fare. Mi ha sporcato gravemente, superando addirittura i suoi record precedenti, mi toccherà attendere il fazzoletto pulito di qualche anima narcisistica.
Vedo tutto annebbiato.
– «L’ha visto il cartello?», infierisce contro una ragazza, «sì, è straniera, ma qua c’è scritto in inglis. Né vogliono fare niente e né mi lasciano fare niente. Oggi poi doveva venire pure questo artista famoso a mettere le installazioni dentro ai bagni. Ho capito la parità, ma qua gli uomini vanno nel bagno delle donne e le donne dappertutto. Io rispetto l’arte, per carità, ma così diventa un manicomio. Altro che arte! E poi sarò all’antica io, ma le installazioni dentro ai cessi non mi sembrano proprio un tocco di genialità».
Finalmente, dopo questo lungo sfogo, Faustina riapre la porta del bagno e lascia entrare le persone.
– «Margherita vieni qua»
– «No, mamma sono in fila»
– «Ma il bagno dei disabili è libero»
– «Mamma non possiamo andare nel bagno dei disabili»
– «Ma non c’è nessuno, io ci vado!»
Margherita non risponde più, ma la madre continua a chiamarla, facendosi spazio tra le donne in fila.
Infine, ad alta voce la mamma conclude: «Allora sei proprio scema, non ho parole».
Riesco ad intravedere a mala pena il volto di Margherita tanto è insudiciata la mia visuale, è una ragazzina con i capelli neri che segue in maniera composta la fila mentre cerca nello zaino il suo pacco di fazzolettini.
Mi piace credere che il futuro abbia il volto di Margherita.
– «Papà ma tu qui non puoi entrare, qui solo le femminucce possono»
– «Lo so amore, ma a fare la pipì chi ti accompagna?»
– «Sono grande ormai, posso farla anche da sola»
Grande non direi, non raggiunge neanche il lavandino.
– «Papi mi prendi in braccio? Voglio vedere se la lingua è blu»
– «Dopo amore, dopo. Prima fai la pipì»
La piccola caparbiamente si avvicina al lavandino, il padre cede, la prende in braccio, e lei parte con la sua linguaccia: «È blu, visto?»
– «Con tutte le M&M’S che hai mangiato, lo credo bene!»
– «Papi, ma la lingua a cosa serve? Perché abbiamo la lingua?»
– «Dai, Marta, ora vieni giù»
– «Papi, facciamo una foto? Su! Su!»
Marta ha i capelli biondi raccolti in due codini, un visino minuto, gli occhi marroni, vivacissimi Il padre avrà più di 40 anni, sembra molto provato, sudato: «Vieni giù così prendo il cellulare».
La rimette a terra e poi la riprende nuovamente in braccio.
– «Papi, sorridi, dai!»
Flash. Il padre scatta la foto e si sforza di sorridere, mentre Marta sembra già una selfie–sta navigata, fa la linguaccia e mette le dita a V.
– «Ora andiamo in bagno», dice il padre.
La bambina continua a fare domande, sembra un juke-box impazzito. Il padre prova a starle dietro, io invece sono già in preda ad un forte esaurimento nervoso.
– «Papi, facciamo un’ultima foto? Davanti ad un altro specchio però, quello è tutto sporco e brutto», dice la bambina indicando me.
Arrivaci tu alla mia età senza aver battuto mai ciglio e poi ne riparliamo, impertinente lingua blu.
È ritornata Ramona, erano giorni che non si faceva viva. Arriva abitualmente verso quest’ora, poco prima delle 21:00. Ha sempre il suo bicchiere di plastica con dentro dei cocktail. Anche questa volta porta il bicchiere in bagno con sé. Avrà più di 45 anni, non ho mai capito che lavora faccia e soprattutto se abbia un lavoro, ma a giudicare dal suo modo di vestire e dal suo aspetto curato credo di sì. O almeno mi pare pacifico che non faccia la fame.
– «Che poi cosa dovevo rispondere a quella? Uno non può neanche tranquillamente scambiare due parole con un uomo che subito partono le scenate di gelosia, le offese e i gesti di inciviltà”.
È abbastanza agitata questa sera. Lei viene qui, e tra un sorso e un altro parla con me. A volte grazie a lei mi sento quasi umano.
– «Ma quanto cavolo sei sporco oggi?!»
Eccola la mia anima narcisistica, ecco chi mi salverà. Ma cosa fa?
No, non voglio vedere, no no. L’acqua, l’acqua, apri il lavandino, ti prego. Vengo quasi inondato dalla sua saliva. Ramona perché?
Mi fidavo di te, ma perché non bagnare il fazzoletto con un po’ di acqua?
Perché hai scelto di impiastricciarmi con il tuo liquido salivare al sapore di alcool?
– «Capito in che Paese viviamo?»
In verità non capisco più niente, so solo che sto ingoiando il tuo intruglio.
Si avvicina per dare un’occhiata al brufolo che ha sulla guancia destra e vengo travolto da una potente alitata di negroni: «Siamo un Paese di matti, uno non può manco parlare civilmente con un essere umano, soffrono tutti di manie di persecuzione, tutti nervosi. Ma poi io con quel tipo non ci stavo mica provando?! È questa l’assurdità».
Si riaggiusta la frangia e le sopracciglia. Altro sorso, e dopo l’ultimo sguardo ammaliante, butta nel cestino il suo bicchiere ormai vuoto: «non ci capisco più nulla», esclama.
Siamo in due.
Fine dello show. Sipario
Saranno pressappoco le dieci di sera, è stato un giorno faticoso; Faustina, prima, e Ramona, dopo, mi hanno proprio mandato fuori uso quest’oggi.
– «Che fai mi segui pure in bagno? Non posso chiamare i miei per chiedere ancora soldi, smettila di insistere, Luca»
– «Ah non puoi? E perché? Sentiamo… »
– «Perché mi vergogno. Io ero una ragazza perbene, prima di conoscere te»
– «E che cazzo c’entra questo ora?»
– «C’entra, c’entra. Fammi andare a pisciare adesso.»
Non chiude la porta del bagno; dopo aver tirato lo sciacquone mi raggiunge lentamente. Inizia a lavarsi le mani, mentre cerca di specchiarsi. Lui si avvicina, non lo vedo in volto: «Quindi? Che vuoi fare?», esclama.
– «Mi devono pagare l’ultimo mese del mio lavoro al call center, ricordi? Aspettiamo quelli.»
Lui le dà uno spintone e urla:”Aspettiamo quelli? Ma tu hai capito o no che io non posso aspettare?»
– «Mi hai rovinato la vita», sussurra la ragazza, mentre si asciuga le lacrime con forza, «anch’io non posso più stare senza quella merda ormai».
Sento i passi di lui allontanarsi velocemente.
La ragazza avvicina alla mia visuale i suoi occhi azzurri, accerchiati dal nero della disperazione. Non scorgo ancora un viso denutrito e segnato; sarà solo all’inizio del suo calvario.
Alcuni volti che accolgo mi segnano, sono solo un pezzo di rigida e passiva nullità, lo so bene, ma certi dolori li trattengo un po’ prima di rimandarli indietro, sarà forse per questo che anche noi invecchiamo, in qualche maniera la vita degli altri segna anche noi.
– «Luca aspetta, non mi lasciare, chiamo i miei, chiamo i miei, fermati!»
©Mariagrazia Passamano. All rights reserved
Pensieri di uno specchio in un bagno pubblico
È notte fonda, vi è un odore insopportabile in questa galera, per le pulizie purtroppo bisognerà aspettare le sei.
Non mi hanno ancora riparato il neon sinistro. Stanotte, a quanto pare, lavorerò ben poco, ma non mi dispiace molto, si incontrano volti non facili da rispecchiare la notte. Di giorno tutto è anestetizzato, compresso, veloce, di notte, invece, ogni cosa esplode, si scompone, si modifica, si deforma, tende alla patologia.
Saranno le quattro, una donna fa capolino, è arrossata in viso, ho giusto il tempo di intravedere le sue labbra gonfie e: «Non si vede niente, che razza di specchio», mi lascia e passa allo specchio accanto: “Mi ha distrutto quel maiale, guarda qua che mi ha fatto, quel pervertito».
Ha un accento straniero, non ne riconosco l’origine. Un suo cliente è stato particolarmente violento, a quanto pare.
È un via vai di prostitute la notte, e a volte raccolgo i segni di uomini non proprio definibili come UOMINI.
L’acqua del lavandino scorre, la donna va in bagno: «Manco un po’ di carta igienica, che razza di cesso!»
Poi sento i suoi passi allontanarsi veloci.
Fine della pausa.
L’acqua del lavandino continua a scorrere
– «Dai qui è perfetto, mica ci vede nessuno?»
– «Fai piano!»
Stanno rompendo il lavandino mi sa, non li vedo, ma li sento. Sembrano gattini in fase grattini.
Capita anche questo la notte, non che di giorno non accada, ma la notte succede con maggiore frequenza e diciamo anche con maggiore veemenza. In questi bagni non esiste distinzione di sesso, di nazionalità… qui veramente si assiste ad ogni sorta di accoppiamento.
Non c’è discriminazione che tenga. Qui dentro vige l’imperio dell’ormone.
Il lavandino sta per cedere, lo sento scricchiolare, accompagna con le sue ultime forze gli ululati finali della coppia vogliosa.
Oh no quei passi! Li riconosco! Spero solo che oggi vada oltre, altrove, dai miei colleghi. Quanto le piacerà premere quei tacchi contro il pavimento. No!!!! È di nuovo qui anche stamane. Anche stamane mi tocca prendere parte al suo rituale da selfiesta compulsiva.
Nell’era di Instagram siamo noi specchi i veri perseguitati.
Ore e ore di prove, di pose. Petto in fuori e pancia in dentro. Sedere bene in vista e viso stirato. Labbra a canotto e sguardo sospeso, spento, di chi ha ingerito un flacone di valium.
Tutte le mattine che Dio manda in terra, dal lunedì al venerdì, prima di iniziare a lavorare, lei è qui. Porta con sé trucchi e cremine.
Vista da diverse angolazioni non cambia: è perfettamente conforme al cerimoniale-influencer, totalmente omologata alla modalità Instagram.
Noia. Tanta noia, un’infinita noia.
Spero molli al più presto la superficie del mio punto di vista.
Cammina trascinando la gamba destra. Sbaglia sempre, viene continuamente nel bagno delle donne, Orlando. Si richiude i pantaloni lentamente, incurante del suo essere fuori luogo, sfiora il mio spazio con lo sguardo mentre regge il suo bastone. Non mi incontra, troppo doloroso. Non si lava mai le mani, fugge, anestetizza ogni tormento con la sua bottiglia di plastica con dentro il vino.
Il perimetro del suo esilio diventa ogni giorno più ristretto. Chissà fino a quando resisterà!
– «Mi scappa forte! Che ti ha scritto tua madre? Hai risposto a Vittorio?»
– «Mia mamma penso ci abbia sgamato… no, a Vittorio col cavolo che rispondo!»
– «Guarda figo questo rossetto!»
– «Me lo Presti?»
– «Sì, certo!»
Avranno 16 anni, queste due ragazze, entrambe castane, capelli lunghi, mi stanno appiccate quasi a volermi baciare, probabilmente hanno problemi di miopia. Non vedono un granché bene, il rossetto mi pare sia anche leggermente sbavato. Sfoggiano tutta una serie di pose, in maniera quasi meccanica. Ridono di continuo, mi annebbiano con i loro aliti al sapor di tabacco fresco. Fuggire alla regola è inebriante a quell’età! La trasgressione è il metro di misura dell’adolescenza. Le osservo, le accolgo. Il suono acceso delle loro risate mi mette di buon umore.
– «Ho fallito di nuovo, un ‘altra bocciatura, cosa mi invento adesso?»
Ha un viso incavato, riporta le mani nei capelli a più riprese. Si guarda intorno, teme che qualcuno possa sentirla. Fissa la sua immagine per tre minuti almeno. Ha l’aria di chi ha studiato molto, gli occhi neri risaltano sull’incarnato bianco. Superare un fallimento non credo sia facile. Io non sono mai caduto – per fortuna, altrimenti smetto di esistere! – e quindi non conosco questa sensazione. Grazie alla ormai nota credenza popolare che mi riguarda, gli umani hanno una gran paura di farmi cascare, mettono viti spesse per evitarlo, adottano ogni precauzione necessaria per sorreggermi, sette anni di sfortuna non sono mica pochi, in effetti. Io resto in piedi e loro si illudono di navigare in acque favorevoli. Compromesso perfetto. Vivo alle spalle delle loro speranze e paure. Rimango l’oggetto più temuto e ora anche il più popolare. Creo dipendenza e fobie. Salvo e maledico. Mi nutro della vanità umana.
RIFLETTO, questo è quanto.
…
©Mariagrazia Passamano. All rights reserved
Il tempo della caduta

Foto di LETIZIA BATTAGLIA
Tempo fa, mentre mi trovavo su un autobus che mi avrebbe condotto alle piramidi di Teotihuacan, e osservavo fuori dal finestrino le favelas sparse come un piccolo alveare lungo la strada, mi passò davanti un camion con sopra scritto “Italia”. Ero fuggita, come ho fatto ripetutamente in questi anni, ma quel minuscolo fazzoletto di terra in mezzo al Mediterraneo continuava a perseguitarmi ovunque. È una storia d’amore che si trascina lenta e logorante verso la fine, quella con il mio Paese, la storia di un amore non corrisposto, costellato di ritorni e di addii. E con la rabbia e l’amarezza di un’amante tradita desidero raccontare due storie in grado di spiegare (in parte) la ragione del mio risentimento.
Una ha inizio in provincia di Napoli, esattamente a Torre del Greco: Matteo, Gerardo, Giovanni e Antonio decidono di partire per le vacanze, una fuga on the road, che vedeva come tappe prima Nizza e poi successivamente Barcellona. In principio avevano pensato di prendere l’aereo, e invece da ultimo hanno optato per la macchina, pensando di celebrare in tal modo il loro spirito avventuriero ed esplorativo. Ma i quattro ragazzi di Torre del Greco non sono mai giunti sulla Rambla e neanche sul lungomare di Nizza. Mentre si immaginavano, da lì a pochi giorni, davanti ad una caraffa di sangria, tra risate e video selfie, il loro viaggio di vita e divertimento si è interrotto dentro quella golf grigia risucchiata dal vuoto, il 14 agosto del 2018.
Nella seconda storia siamo invece a Corinaldo, un paesino in provincia di Ancona, dove la notte del 7 Dicembre molti, troppi, ragazzi si trovano nella discoteca Lanterna azzurra. Sono tutti in attesa del loro idolo che però tarda ad arrivare. Immagino l’attesa adrenalinica, i rumori, le luci psichedeliche, quel tutto accelerato, confuso, “strippante”. Ad un certo punto però l’inizio della tragedia: qualcuno spruzza lo spray al peperoncino, inizia la fuga, le persone si accalcano verso l’uscita di sicurezza (l’unica aperta a quanto pare) ma appena fuori i due parapetti laterali in ferro vengono meno e le persone cadono l’una sull’altra. Correvano per salvarsi, per prendere aria, e invece Asia, Daniele, Benedetta, Mattia, Emma ed Eleonora in quella corsa disperata hanno trovato la morte.
Due avvenimenti, due storie di cadute. Ponti e parapetti che crollano, ragazzi che cercano la vita – che sono nel pieno della vita – e che invece non sono mai più tornati a casa. Storie di responsabilità gravi di controllanti e controllati, di proprietari, di gestori, di manutentori, amministratori, commissioni tecniche, storie di un Paese che cade in piccoli pezzi, che si frantuma in mille irrecuperabili episodi di morte. La definizione di caduta è: azione e risultato del cadere al suolo o verso il suolo. Ma chi ha scaraventato queste persone verso il suolo?
Non il fato, non il caso, non la longa manus di madre natura, né tanto meno il libero arbitrio, allora cosa? Chi?
Se guardiamo bene queste due storie sono cementate insieme da un unico grande filo rosso, dallo stesso presupposto, che ha un nome: IRRESPONSABILITÀ corale. Un fenomeno che potremmo altrimenti definire come disinteresse sociale, o menefreghismo di massa. Tutto nel nostro tessuto sociale si è ritirato come le maglie di una coperta di lana infeltrita, capace di coprire solo il particolare; tale è l’ossessione per il mediocre, per l’utile, per l’imperante narcisismo isolante, perverso, alienante. Manchiamo di “produttività”, siamo ingabbiati dalla nostra sterilità, e invece “gli individui sono espressione di un’attività produttiva quando animano ciò che toccano, quando danno vita alle proprie facoltà, ma anche alle persone e alle cose che le circondano” (ERICH FROMM, Avere o Essere). È questione di cura e premura, di diligenza, di senso civico. L’interrogativo – quale sarà la conseguenza di questa mia azione? – è la domanda cardine dalla quale potrebbe derivare un’istante di vita in più. E non è un dovere derogabile o alienabile, deve essere portato avanti individualmente, coscienziosamente da ognuno di noi. Se solo un anello della catena omertosa avesse ogni tanto il coraggio di dissociarsi e slacciarsi con forza dall’ingranaggio generale, non si arriverebbe più a pronunciare continuamente la frase “non doveva accadere”. Albert Camus, nel suo meraviglioso libro “La caduta”, scriveva: “quando saremo tutti colpevoli, ci sarà la democrazia”. Allora per noi evidentemente la strada è ancora lunga. Questo Paese non si rialzerà senza la bellezza e l’esempio dei nostri gesti ordinari, senza la denuncia e la resistenza quotidiana. Non rinascerà fino a quando gli intellettuali non crederanno nel valore sociale ed aggregante della cultura, non fino a quando ci imbottiremo degli steroidi del disinteresse, accanendoci sugli avanzi della mensa del “magna magna”, non fino a quando non diventeremo patrocinatori di interessi e di valori comuni.
Credo che queste due storie rappresentino al meglio la condizione attuale dell’Italia: uno stato permanente di sospensione nel vuoto. E poiché come sosteneva Anaïs Nin “l’amore non muore di morte naturale. Muore di cecità e di errori e tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità”, non mi resta altro che perdermi in nuove terre, in luoghi che forse mi accoglieranno con lo stesso grado di incuria ed ingiustizia, o forse mi andrà bene e conoscerò un po’ di pace, ma una cosa mi appare certa: il posto che abiterò potrà ferirmi solo lievemente perché può deluderci solo ciò in cui abbiamo creduto e ciò che abbiamo amato con tutta l’anima.
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Un anno dopo…
È passato un anno dall’attentato a Barcellona. Era il 17 agosto 2017 e in questo articolo, pubblicato su piùeconomia*, raccontavo il mio ritorno nella città catalana dopo il tragico evento.
Se andate a cercare nell’enciclopedia medica la definizione di convalescenza troverete la seguente dicitura: “periodo intermedio che intercorre tra la fine dello stato di malattia (o dopo un’operazione chirurgica) e la ripresa completa dell’organismo”. La convalescenza è dunque un momento di massima vulnerabilità per il paziente essendo questi particolarmente debole e quindi ad alto rischio di essere contagiato. Orbene, se è vero quanto sostiene il noto scrittore catalano, Carlos Ruiz Zafón, ovverosia che “le città sono organismi, degli esseri viventi” anche i luoghi, al pari delle persone, possono vivere una forma di convalescenza, a volte in seguito a gravi calamità naturali, altre volte per le azione scellerate degli uomini, e altre ancora perché tali scellerate condotte arrivano ad un grado talmente alto di imprevedibilità e di potenza da somigliare a vere e proprie calamità naturali. Se a vivere il periodo di convalescenza è una città, quindi, ci si aspetta di trovare questa ripiegata su se stessa, indebolita, dolorante e vulnerabile. Questo nella maggior parte dei casi, ma non se la paziente in questione si chiama Barcelona. Immaginate che tra la vita e la morte si interponga una strada dove la tragedia e la speranza camminino insieme, dove il flusso del divenire le comprenda e le tolleri entrambe, dove il rispetto per le vittime e la voglia di non cedere psicologicamente al nemico coesistano, pensate a questa strada come ad un sentiero di pace e di fratellanza. Ecco, esattamente questo è La Rambla di oggi, un luogo dove il ricordo della tragedia si unisce alla speranza e al senso di rinascita.
Lasciandosi dietro le spalle Plaça de Catalunya, quando si arriva all’ultimo semaforo prima di immettersi nella Rambla, subito si intravede un temporaneo altare funebre fatto di mazzi di fiori, lettere, candele, magliette, e oggetti vari, mentre poco più in là, posizionati su ambo i lati del grande accesso alla via, vi sono ora stabilmente due furgoni della polizia a presidiare e a fare da barriera, impedendo in tal modo l’accesso a qualsiasi tipo di autoveicolo. Superata la polizia La Rambla appare come sempre, piena di gente, un alveo brulicante di vita. Le persone camminano spedite, si fermano solo a dare il loro commiato in quel punto iniziale e a metà del percorso, precisamente nel luogo dove migliaia di persone hanno lasciato, nei giorni successivi all’attentato, delle scritte con gessetti colorati a sostegno di Barcellona. Tra i vari messaggi che ho letto ce n’è uno che mi ha colpito particolarmente: “Isis in crisis”.
Come se l’autore di quelle parole, in un gioco di rime, volesse sottolineare che La Rambla non rispondendo con la paura abbia messo l’Isis appunto in uno stato di crisi. E in effetti il terrore, inteso come la conseguenza perseguita da ogni attentato terroristico, nella città catalana non ha avuto troppe ore di vita, e questo è ciò che inequivocabilmente si rileva a distanza di qualche settimana.
Tempo di convalescenza breve dunque per “L’incantatrice”, che in questi giorni si sta preparando in maniera concitata per l’evento del referendum per l’indipendenza che si terrà il primo di ottobre, e alle festività della Mercè in programma per la fine di settembre. Il Consiglio Comunale dal canto suo, invece, ha creato il sito web “Barcelona Educa Per la Pau” con risorse educative per aiutare gli insegnanti ad affrontare il tema dell’attacco del 17 agosto a La Rambla e quindi lavorare per la cultura della pace. Il clima di rasserenata speranza è capace di rassicurare anche i tanti turisti presenti, i quali si muovono confidenti in ogni via, piazza e monumento della città.
Se “le città sono organismi ed esseri viventi” e “Barcellona una donna” non si può che immaginarla come una coraggiosa eroina di altri tempi, marcatamente indipendente e smisuratamente attaccata alla vita.
“La caduta”
“Ah, caro mio, per chi è solo senza Dio né padrone, il peso dei giorni è terribile. Perciò, visto che Dio non è più di moda, bisogna scegliersi un padrone”.
Cadere e restare a terra, sospesi, nell’attesa, e con la consapevolezza nauseabonda che potrebbe non esservi alcuna risalita. Cadere, ed essere tutti più vicini alla colpevolezza, alla pena, al peso della mortalità, alla condanna. Siamo “i chiodi della crocifissione”. Coloro che ipocritamente si “arrampicano sulla croce solo per essere visti da lontano” Nessuno escluso, nessuno immune, una condanna corale. La caduta è l’esemplificazione della non redenzione. È la veglia funebre del nichilismo, è corrosione di ogni menzognera certezza, il funerale ufficiale dell’ipocrisia, il crollo della metafisica e preludio della rivolta.
“La Caduta” è un romanzo di Albert Camus scritto nel 1956. Il protagonista, Jean- Baptiste Clamence, è un avvocato parigino che lascia la capitale francese e il suo lavoro e si trasferisce ad Amsterdam, e fa del bar Mexico City il suo nuovo “studio”.
È un lungo monologo, la confessione di un “giudice penitente”, di “un falso profeta”, di un segmento sbiadito, opaco, spento.
Il protagonista sembrerà porre fine alla menzogna della sua vita, solo nel momento in cui “il demone” del sottosuolo arriverà a perseguitarlo, assumendo le fattezze di una risata, che lo tormenterà anche tra i canali di Amsterdam e che udrà a partire dall’istante in cui “qualcuno si gettò in quelle acque gelide”.
Eppure Clamence non conosce redenzione, il liberarsi dalla maschera non ha come conseguenza nessuna rinascita per lui. Così il suo urlo appare parzialmente rivoluzionario; torna indietro, come un eco, incapace di sfondare la parete della incomunicabilità, dell’indifferenza e della solitudine.
È dunque il racconto di un uomo impenitente, esiliato tra le mura della contraddizione tra il “diritto” alla vita – l’amore per essa – e il suo “rovescio”. Annegato nel mare di un godimento che nel momento in cui è smette di essere. La caduta è espressione di una vita inautentica, ipocrita, falsata, annebbiata. Induce il lettore a trovare una sua dimensione, oltre il dolore, oltre la noia, oltre l’agonia del puntare tutto sulla vanità e la Mensonge. È estraneità, assurdo ma non ancora rivolta. È critica, ma non unione, è espressione di quel Dio non rinvenibile “né più in soffitta né più in cantina”, ma “installato su un tribunale nel fondo di coloro che giudicano e picchiano, soprattutto in nome suo”.
Camus dissacra, disorienta, sconvolge. È pensatore scomodo, costringe il lettore alla riflessione, al senso di vuoto, lo pone dinanzi alla consapevolezza di un divorzio irrimediabile fra l’insopprimibile appetito umano di senso e l’irragionevole silenzio del mondo.
In questo quadro narrato con assoluta verosimiglianza Camus espone di nuovo il suo umanesimo pessimista, ma anche l’importanza degli affetti e dell’agire individuale. In questo contesto, l’uomo risulta incapace di portare avanti la sua battaglia sorda contro il mondo, e non vuole né la libertà né le relative sentenze.
L’autore, però, vorrebbe convincere l’individuo ad abitare la propria libertà, a preservare l’essere nella sua permanenza e determinatezza e lo fa scaraventandolo giù dal precipizio del nichilismo.
Non si può più tornare indietro ed indossare gli abiti di ciò che eravamo, dopo “ la Caduta”, dopo essere stati schiaffeggiati dalle parole di Camus, e dalle struggenti sensazioni di questa opera che come una spina è in grado di conficcarsi nel cuore del lettore. Restituisce una nuova consapevolezza, lascia tutti in sospeso, educando a quell’inciso, “Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio», che segnerà la rivolta.
Mariagrazia Passamano
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Tina Modotti: una vita “di troppa arte”
Tina Modotti, hermana, no duermes, no, no duermes:
tal vez tu corazón oye crecer la rosa
de ayer, la última rosa de ayer, la nueva rosa.
Descansa dulcemente, hermana.
La nueva rosa es tuya, la nueva tierra es tuya:
te has puesto un nuevo traje de semilla profunda
y tu suave silencio se llena de raíces.
No dormirás en vano, hermana.
Puro es tu dulce nombre, pura es tu frágil vida,
de abeja, sombra, fuego, nieve, silencio, espuma,
de acero, línea, polen, se construyó tu férrea,
tu delgada estructura.
El chacal de la alhaja de tu cuerpo dormido
aún asoma la pluma y el alma ensangrentadas
como si tú pudieras, hermana, levantarte,
sonriendo sobre el lodo.
A mi patria te llevo para que no te toquen,
a mi patria de nieve para que tu pureza
no llegue al asesino, ni al chacal, ni al vendido:
allí estarás tranquila.
¿Oyes un paso, un paso lleno de pasos, algo
grande desde la estepa, desde el Don, desde el frío?
¿Oyes un paso de soldado firme en la nieve?
Hermana, son tus pasos.
Ya pasarán un día por tu pequeña tumba,
antes de que las rosas de ayer se desbaraten;
ya pasarán a ver los de un día, mañana,
donde está ardiendo tu silencio.
Un mundo marcha al mundo donde tú ibas, hermana.
Avanzan cada día los cantos de tu boca
en la boca del pueblo glorioso que tú amabas.
Tu corazón valiente.
En las viejas cocinas de tu patria, en las rutas
polvorientas, algo se dice y pasa,
algo vuelve a la llama de tu adorado pueblo,
algo despierta y canta.
Son los tuyos, hermana: los que hoy dicen tu nombre,
los que de todas parte del agua, de la tierra,
con tu nombre otros nombres callamos y decimos.
Porque el fuego no muere.
Pablo Neruda

Tina Modotti, Donna di Tehuantepec, 1928
Tante, troppe, le affinità tra me e questa artista straordinaria. L’amore per il Messico, la Russia e la Spagna, tre Stati vissuti intensamente da entrambe. E poi l’amore per la fotografia che diventa espressione onirica di una speranza, testimonianza di una realtà che si desidera intrappolare ed afferrare per personalizzarla, per stigmatizzarla; una forma di cannibalismo artistico, l’ossessione per la fotografia, che spinge l’osservatore a voler possedere ciò che il suo sguardo penetra e ad ingurgitare quel flusso vitale che non si può arrestare, che non si può placare.
La fotografia però non fu mai vissuta dalla Modotti come una forma d’arte, infatti non era d’accordo quando le parole arte e artistico venivano usate in riferimento al suo lavoro, sosteneva:”mi considero una fotografa e niente di più”.
Una donna rivoluzionaria, bellissima, scomoda, una donna a cui l’Italia, ancora oggi, non accenna ad abituarsi. L’Italia delle ombrelline, delle veline, delle letterine, non può essere in grado di buttar giù una donna che non accetta di essere oggetto, mero feticcio, scarto. Non può accettare il nudo di una donna libera, ma ipocritamente, è capace di idolatrare la nudità finalizzata e strumentalizzata.
Tina Modotti nasce a Udine il 17 agosto 1896 nel popolare Borgo Pracchiuso, da famiglia operaia aderente al socialismo di fine Ottocento. Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, lasciandosi alle spalle un’adolescenza da dimenticare. In America, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy. Durante una visita all’Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si sposa nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l’arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d’incontro per artisti e intellettuali liberali.
Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger’s Coat, per la regia di Roy Clement e, in questo periodo incontra Edward Weston, sarà lui a cambiarle per sempre la vita. Tina si appassiona alla tecnica fotografica, posa per l’artista, e intanto osserva, studia e fa suoi gli insegnamenti di Weston.
Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo la affascinerà. Alla fine dell’anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che sarà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo.
A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston si rincontrano e decidono di vivere liberamente la loro storia. Arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. La Modotti ebbe modo, in questo periodo, di conoscere diversi esponenti dell’ala radicale del comunismo, e la pittrice Frida Kahlo. Indelebile rimarrà la sua mostra che venne venne pubblicizzata come “La prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”: fu l’apice della sua carriera di fotografa. All’incirca un anno dopo, fu costretta a lasciare la macchina fotografica dopo l’espulsione dal Messico, a parte poche eccezioni, non scattò più fotografie nei dodici anni che le rimanevano da vivere.
Esiliata dalla sua patria adottiva, per un periodo la Modotti viaggiò in giro per l’Europa per poi stabilirsi a Mosca, in Russia, dove si unì alla polizia segreta sovietica, che la utilizzò per varie missioni in Francia ed Europa orientale e successivamente si trasferì in Spagna nel periodo della guerra civile del 1936. In seguito lasciò la Spagna, per tornare in Messico sotto falso nome, dove morì nel 1942, forse colpita da un infarto in taxi mentre tornava a casa, anche se la stampa scandalistica messicana ipotizzò un avvelenamento da parte dell’amante Vidali, che avrebbe pianificato l’omicidio a causa dei numerosi segreti condivisi con l’artista.

Frida Kahlo e Tina Modotti, Mexico 1928
Una donna che ha amato Mosca, la Spagna ma soprattutto Frida Kahlo e il Messico nascosto e oscuro degli indigeni; il Messico che come le sirene di Ulisse, non concede più pace ai suoi naviganti, ai suoi tanti amanti e ancor meno ai suoi esiliati. Immagino le due donne camminare lente tra la polvere delle strade di Coyoacan, sento il suono delle loro risate, il peso dei loro pensieri. Entrambe morte in Messico a 12 anni di distanza, donne sventurate ed immortali, coraggiose, anticonvenzionali nonostante il loro profondo legame con le tradizioni dei popoli. Pittrice una e fotografa l’altra, forse amanti, forse no, sicuramente però creature complici e rivoluzionarie.
Rimane la loro energia di donne in rivolta, ma forse più di tutto la loro esistenza mai sprecata, folle, di donne libere ed indomite, fin troppo moderne anche per i nostri tempi, caratterizzati ancora da un logica arrugginita di femminismo malato e di maschilismo pervasivo.
Rimane il ricordo di questa donna eccezionale, e della sua esistenza vissuta “con troppa arte”, ma, contrariamente a quanto da Lei sostenuto, rimane anche la sua arte; rimane il suo nome, con il quale “altri nomi tacciamo e diciamo perché non muore il fuoco”.
Mariagrazia Passamano
Lo straniero
Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? Tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!
Charles Baudelaire, Lo straniero

Straniero: parola a me cara. Sul mio documento d’identità alla voce segni particolari avrei dovuto chiedere di aggiungere la connotazione di straniera. É un tratto caratterizzante la mia persona da sempre. La mia condizione richiama quella dell’esule, della persona in eterno moto, di Medea. Sono nata straniera, in terra straniera, da genitori stranieri. O meglio sono nata forestiera. Anche nel mio amato paese, ero quella che “veniva da fuori”, e poco contava che mia madre fosse di un paese vicino e mio padre comunque campano. Il mio sangue era misto, non vantavo origini pure, i miei avi erano anche loro discendenti dei sanniti, ma non contava, perché basta un nulla, un elemento difforme, non corrispondente, mancante, per essere considerato “straniero”, ovvero diverso, estraneo, strano. Strano, perchè in fondo l’elemento della stranezza è la lettera scarlatta dello straniero, basti pensare alle coppie corrispondenti di termini straniero/strano in italiano, ètranger/étrange in francese, stranger/strange in inglese, fremder/fremd in tedesco. Lo straniero rappresenta, rispetto alla massa, un elemento di “non ordinarietà”, di singolarità. Ma non ordinario, estraneo in relazione a chi o a cosa? Straniero rispetto a quale metro di paragone?
Lo straniero è colui che si imbatte contro un ordine precostituito di consuetudini, di convincimenti e talvolta di pregiudizi. È l’elemento di diversificazione rispetto all’ovvio, al comprovato. È l’ascia che va a lesionare il muro del nichilismo pervasivo delle comunità fondate sull’abitudine. Lo straniero è il silenzio in mezzo al frastuono, può rifugiarsi nei boschi come il personaggio shakespeariano di Ermia per evitare i severi ed ingiusti ordini del padre, oppure arrivare dal mare come Odisseo. È l’osservatore “barbaro” che può alterare e guastare il nostro assetto politico e sociale. È colui che è fuoriuscito dal coro, dal gruppo dei pari, è il pentito, il condannato e l’esiliato. É colui che si sente forestiero in un corpo che non riesce ad abitare, è l’uomo che puzza agli angoli delle strade, un pazzo qualsiasi del mio paese che errante si aggira tra gli antichi ruderi di una realtà altra, incapace di distinguere tra ciò che è dentro e ciò che è fuori il suo delirio. Si può essere stranieri rispetto all’esistenza, alla felicità, alla verità, alla pace. L’errore più grande è forse quello di pensare di non esserlo, è la ricerca dell’omologazione e la rinuncia alla multiformità. L’incubo è quello di provare orrore rispetto alla propria condizione di “forestiero”, di creatura transeunte e “meticcia”, buttata qui per caso, con un destino ignoto ed un’origine ancora più incerta. Per brevi tratti ci troveremo a condividere con altre genti lo stesso destino, camminare sullo stesso suolo, parlare la stessa lingua, e tutto questo ci aiuterà a sentirci meno soli, a sentirci parti di un tutto, di viverci come “cittadini”; è un modo per percepire meno vicina l’ora in cui tutto finirà e per impreziosire lo svolgimento, la narrazione, il viaggio. In questo sputo chiamato vita, in questa parentesi incerta tra il morire e il dormire rimaniamo tutti in attesa, preservando la speranza di imbatterci come Odisseo in Nausicaa, in colei che non fugge, che rimane immobile, tranquilla dinanzi allo sconosciuto sporco di salsedine ed in colei capace di contenere e di accogliere l’urlo di sgomento dell’errante.
Mariagrazia Passamano
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E se fosse arrivato il nostro momento?
Per la componente femminile del genere umano è giunto il tempo di assumere un ruolo determinante nella gestione del pianeta. La rotta imboccata dal genere umano sembra averci portato in un vicolo cieco di autodistruzione. Le donne possono dare un forte contributo in questo momento critico.
Rita Levi-Montalcini

Foto di Sebran D’Argent
Oltre cento donne in Italia ogni anno vengono uccise da uomini, quasi sempre quelli che sostengono di amarle. Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 in famiglia. Sono 3 milioni e 466 mila in Italia, secondo l’Istat, le donne che nell’arco della propria vita hanno subito stalking, ovvero atti persecutori da parte di qualcuno, il 16% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Questi numeri non possono non farci riflettere. Ho seguito alcune cause riguardanti i reati di “atti persecutori” e “maltrattamenti in famiglia” e va detto che purtroppo molte volte le donne hanno denunciato e chiesto aiuto, ma che non ci sono state risposte adeguate dal punto di vista istituzionale. Non voglio però soffermarmi sul profilo giuridico e processuale di detti crimini, ma su un’analisi di tipo culturale. Oltre alle gravi patologie di tipo psicologico che, nella maggior parte dei casi, caratterizzano i comportamenti degli autori di abuso, violenze, maltrattamenti, etc., non si può negare che alla base di tali condotte vi sia infatti, anche, un atteggiamento culturale che si sostanzia nella negazione dell’altro come soggetto indipendente e alienus. Il meccanismo mentale che è alla base della pretesa di appropriazione si può tradurre nel considerare l’altro come una proiezione di un nostro bisogno o pulsione. La spinta della pulsione riduce il valore dell’oggetto a uno strumento dell’esigenza di soddisfacimento dell’individuo. Quello che conta è dunque la soddisfazione della pulsione rispetto alla quale l’esistenza particolare risulta totalmente indifferente. Il partner diviene in tal modo una res sulla quale esercitare il nostro dominio e attraverso cui soddisfare i nostri bisogni. Una mancanza gravissima dei nostri tempi credo sia la trascuratezza riservata all’educazione sessuale e ai “discorsi intorno all’amore”. Le scuole hanno bisogno di pedagogisti, di filosofi, di psicologi e di antropologi; queste figure sono essenziali per sviscerare alcune problematiche complesse come il rispetto di se stesso e dell’altro. È un errore gravissimo pensare che la scuola sia solo un centro di nozioni, di voti e di esami. Anche il bullismo nasce dalla sopraffazione, e dalla volontà di annullare l’altro come centro di identità e di diversità. Bisogna educare al rispetto dell’altro e tentare di sostenere e supportare i ragazzi che mostrano maggiori difficoltà in tal senso. Nelle scuole è necessario parlare di sessualità e di amore. C’è una confusione impressionante su questi temi. Credo inoltre che anche il mondo femminile sia responsabile di questa cultura “del non rispetto”. Una volta in un mio viaggio da Firenze verso Napoli incontrai una donna napoletana molto bella di circa quarant’anni. Ascoltai tutta la sua telefonata, raccontò a suo figlio di quanto lui fosse importante per lei, di quanto la sua presenza avesse cambiato radicalmente la sua vita e poi chiuse la conversazione dicendo: “però fino a quando non chiederai scusa alla tua ragazza per quel gesto da vigliacco che hai fatto, io non ti rivolgerò più parola”. Poi mi guardò e mi disse: “so che penserai che sono una madre troppo rigida, ma credo fortemente che il rispetto per la donna passi inevitabilmente dal ruolo che le madri hanno nelle vite dei loro figli”. La saggia e combattiva Signora napoletana aveva ragione. Noi donne dobbiamo avere nel cuore le sorti delle altre donne. Siamo responsabili di tutto ciò che sta accadendo. Una cultura maschilista e di sopraffazione prende forma dove manca la DONNA. L’amore nasce dentro di noi e attraverso di noi. Prima di dividere il mondo in donne VITTIME e uomini CARNEFICI pensiamo alla maniera indegna con la quale le politiche italiane ci stanno rappresentando, al maschilismo latente che serpeggia nelle nostre anime, prima di considerare gli uomini gli unici responsabili di tutti i mali del mondo interroghiamoci sull’esempio che diamo ai nostri figli e alle nostre figlie. Molto dipende da noi, dal nostro modo di raccontare la nostra femminilità e le nostre fragilità. Più che una guerra tra generi, a me pare si possa parlare di una forma di epidemia chiamata “Mancanza di RISPETTO DELL’ALTRO”. La parola rispetto deriva dal latino: respectus, da respicere guardare indietro, composto di re– indietro, di nuovo e spicere guardare. Il rispetto dell’altro infatti presuppone il guardare e l’osservare. Ricominciamo dalla cura di questo valore, dal vivere le altre creature come una possibilità e non come una pretesa, sostenendo chi è più in difficoltà ed educando alla consapevolezza che l’amore può generarsi e crescere solo in una condizione di libertà e di indipendenza. La nostra non deve essere una guerra terminologica, (ministro/a, presidente/a), ma una battaglia culturale tesa a modificare le radici malate della nostra società e del rispetto nei confronti dell’altro e della donna in particolare. Il cambiamento può partire solo da noi e dalla “reinterpretazione” del concetto di “amore“.
Mariagrazia Passamano