Potrebbe trattarsi di ali

Potrebbe trattarsi di ali (L’Iguana Editrice) della scrittrice Emilia Bersabea Cirillo è una raccolta di racconti caratterizzati da alcuni tratti comuni come quello della solitudine, dell’assenza di Dio, dell’esistenza imperniata sull’abitudine e della negazione del rischio. Sono sette storie di “corpi che resistono”, legate tra loro da un filo rosso ovvero dal concetto di rinascita, rappresentato metaforicamente dalle ali. Le ali come immagine della possibilità di riscatto, come alternativa, come bisogno di reagire a una vita contraddistinta da un rigido e ineluttabile fatalismo; un’esortazione alla speranza che come in Emily Dickinson assume proprio la fattezza di ali e che “dimora nell’anima e canta la melodia senza parole”.l'iguana editrice

Narrazioni incentrate su storie di donne, costruite su una pluralità di voci, ciascuna con il proprio spazio e la propria dignità: donne sole, rassegnate a una severità implacabile e all’assenza di desiderio – come nel caso di Colomba; donne ridotte a meri oggetti inanimati e desoggetivizzati – ed è la storia della soul doll Rebecca; e ancora donne “sufflè” e “fuori misura” – come per Agnese; donne che scrutano, che indagano le storie nelle storie, capaci di cogliere il lato più intimo e personale dell’esistenza altrui – Giovanna nel Come si fa a dire se; quelle tra cambiamenti e compimenti irrealizzati, deteriorate in un involucro ricoperto di polvere – come Laura; e ancora donne rivestite da una “corazza di gelo” rassegnate alla sopravvivenza in seguito al lancinante dolore dovuto alla perdita di una figlia – la storia di Norma; infine quelle che tentano nel preludio della fine di ricongiungersi con una parte di se stesse – il personaggio di Anna.
I racconti sono ambientati quasi tutti ad Avellino, ma anche a Napoli e Licosa e non mancano rinvii a Paesi lontani come la Nuova Zelanda e il Canada. Alcuni di questi luoghi però, sebbene descritti nel dettaglio, restano solo sullo sfondo, non vanno a caratterizzare, a particolarizzare la vita delle protagoniste e a confinare in un’aerea geopolitica le ansie, le solitudini, i vuoti dei personaggi che appaiono pertanto testimoni di sofferenze universali.
Lo stile, che è sempre prezioso anche quando riveste panni più umili, è caratterizzato da una prosa nitida, attraversata da fili diversi, che si tessono in una articolata descrizione della realtà.
L’autrice mantiene un distacco dai suoi personaggi, non interviene all’interno del testo per pilotare le coscienze dei protagonisti. Ogni personaggio rappresenta in qualche modo un’idea, un’ossessione, un mondo di solitudine, ideologicamente autonomo, indipendente dalla visione della scrittrice, che non fa altro che seguirne il naturale sviluppo senza piegarne la psicologia alle esigenze di trama.
Emilia Bersabea Cirillo adotta una tecnica narrativa per cui il carattere dei personaggi emerge dai dialoghi e dalle azioni, e altresì dalle sue accurate descrizioni che però sono ben lontane dal configurare un punto di vista espositivo onnisciente.
La narrazione degli accadimenti, con l’esclusione di ogni intervento giudicante dall’esterno, non conduce però all’annullamento di ogni rapporto critico tra l’autrice e i fatti narrati, invero pur non dando vita ad un gioco di primi piani e di punti di vista, più volte coglie l’occasione per intervenire, ad ammonire in alcuni casi e a condannare determinate condotte in altri – “esalto il corpo, unico valore di questo mondo sciatto”. Mentre il tono diventa amaro e malinconico quando fa cenno alla difficile situazione irpina – “il lavoro è una fata morgana in un deserto assolato”.
Non mancano inoltre cenni alla scrittura intesa come arte ed elogi più o meno velati a scrittrici come Alice Munro e Jane Austen.
Ed è proprio dall’ultimo capolavoro di quest’ultima – Persuasione – che Emilia Bersabea Cirillo sembra mutuare il racconto del passaggio da una donna passiva ad una soggetto agente, e altresì l’impatto fisico con le passioni: si concede al linguaggio del corpo aprendo la sua scrittura a delle immagini fisiche; il libro infatti presenta, soprattutto nel primo racconto e nel secondo, chiari e precisi riferimenti erotici-sensuali.
Nelle realtà conflittuali, e a volte quasi paradossali quali sono quelli in cui la scrittrice colloca i suoi personaggi, l’evoluzione di ciascuna donna consiste nella capacità di partecipare al cambiamento appoggiandosi a un’altra donna, ed è difficile non vedere in questo la proiezione del desiderio di maggiore fraternità o unione del genere femminile da parte dell’autrice. In questi racconti dai finali volutamente irrisolti, l’incontro con le altre donne costituisce l’unica condizione di superamento dell’assurdo, inteso come un rapporto che si stabilisce tra chi chiede, interroga e il mondo irrazionale che resta sordo a questo richiamo; emblematica appare in tal senso soprattutto l’ultima parte della storia di Laura, dove la voce della sua amica Bianca le consente di riemergere, di ricominciare e di abbandonare quel corpo appesantito e rannicchiato in un involucro che le impediva di distendere le ali e di sfidare i propri limiti – “andò a fondo, troppo, era buio che toglieva il respiro. Scattò con le reni, si diede una spinta con gesti ampi delle braccia e finalmente intravide il bagliore dei fari. Sentì la voce di Bianca che la chiamava. Diede un altro colpo di reni  e arrivò a pelo d’acqua. Era là che l’aspettava la luce”.

         Mariagrazia Passamano     

Questa recensione è stata pubblicata su Exlibris20  http://www.exlibris20.it/racconti-di-emilia-bersabea-cirillo/.

 

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“Perché lungo il perire dei tempi l’alba è nuova, è nuova”.

«Se si è toccato il fondo, non si può scendere ancora sotto. Restare giù sarebbe la morte, che nessuno vuole. Quale che sia il genere letterario, una cosa è chiara a tutti: a tutti gli italiani toccherà lottare per risalire e stavolta per risalire non significa andare al Nord. Per staccarsi dal fondo, bisognerà puntare i piedi a Sud»

Walter Pedullà, Il mondo visto da sotto

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“Oh, il Sud è stanco di trascinare morti/ in riva alle paludi di malaria, /è stanco di solitudine, stanco di catene”. Questi alcuni versi della struggente poesia “Lamento per il sud” di Salvatore Quasimodo, uno dei padri dell’ermetismo e vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959. Eppure l’opera di Quasimodo, al pari di altri autori meridionali, non compare nell’olimpo della “letteratura vera”, nel pantheon delle figure di rilievo selezionate dal Ministero della Pubblica istruzione per i programmi scolastici (per i Licei). Ebbene sì, lo scrittore siciliano appartiene anch’egli all’esercito degli scartati, degli esclusi, dei senza gloria, di coloro che sono confinati nel “ghetto” a sud di Roma, come rappresentanti di un’espressività meramente regionale. I clandestini della letteratura italiana, gli invisibili, i Cancellati.

Nel 2010 infatti, nel silenzio generale, una commissione di “esperti” nominata dall’allora Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini stilò il documento “Schema di regolamento recante “Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali di cui all’art. 10, comma 3, del D.p.R. 15 marzo 2010”. Orbene, le anzidette “indicazioni nazionali” elencano 17 autori, ritenuti “non eludibili” e “decisivi”, ma tra questi non compare nessun meridionale – eccetto Verga e Pirandello – ed una sola donna, Elsa Morante.

Ad accorgersi per primi del misfatto furono due intellettuali irpini – del Centro di documentazione sulla poesia del sud – Paolo Saggese e Peppino Iuliano, i quali da quasi otto anni portano avanti con ostinata una doverosa battaglia contro questa assai discutibile selezione ministeriale. I suddetti, insieme ad Alessandro Di Napoli, Alfonso Nannariello e Raffaella Sella, hanno dedicato alla questione due opere – “Faremo un giorno una carta poetica del sud ”, con la prefazione di Alessandro Quasimodo e “Faremo un giorno una carta poetica del sud (2)” con la Prefazione di Paolo di Stefano – che raccontano diffusamente questa vicenda politico-culturale.
Ed è proprio a Paolo Saggese, direttore scientifico del Centro di documentazione sulla poesia del sud, che abbiamo chiesto di riassumere ogni singolo passaggio di questo processo di rimozione culturale, con il tentativo di individuare e comprendere le possibili cause o concause che hanno determinato la vergognosa esclusione degli autori meridionali.*

È un combattente nato, Paolo Saggese, un utopista, un “operaio di sogni”, un custode della cultura meridionale, un “rivoluzionario gentile”. Bacchetta gli intellettuali che nel tempo sono stati capaci di dare espressione solo alle ombre, senza mai sottolineare, anche, la luce del meridione, contribuendo indirettamente all’operazione di coloro che stanno tentando di effettuare, come scrive Paolo Di Stefano, una vera e propria opera di “rimozione” della Terronia dalla cultura italiana. “Dobbiamo liberarci dal senso di minorità”, dice, con una sfumatura di amarezza.

 

Mariagrazia Passamano

*L’intervista integrale a Paolo Saggese la troverete su “Più Economia”, con il titolo, Saggese e la poesia dimenticata: il Sud rialzi la testa

“La caduta”

“Ah, caro mio, per chi è solo senza Dio né padrone, il peso dei giorni è terribile. Perciò, visto che Dio non è più di moda, bisogna scegliersi un padrone”.

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Cadere e restare a terra, sospesi, nell’attesa, e con la consapevolezza nauseabonda che potrebbe non esservi alcuna risalita. Cadere, ed essere tutti più vicini alla colpevolezza, alla pena, al peso della mortalità, alla condanna. Siamo “i chiodi della crocifissione”. Coloro che ipocritamente si “arrampicano sulla croce solo per essere visti da lontano” Nessuno escluso, nessuno immune, una condanna corale. La caduta è l’esemplificazione della non redenzione. È la veglia funebre del nichilismo, è corrosione di ogni menzognera certezza, il funerale ufficiale dell’ipocrisia, il crollo della metafisica e preludio della rivolta.
“La Caduta” è un romanzo di Albert Camus scritto nel 1956. Il protagonista, Jean- Baptiste Clamence, è un avvocato parigino che lascia la capitale francese e il suo lavoro e si trasferisce ad Amsterdam, e fa del bar Mexico City il suo nuovo “studio”.
È un lungo monologo, la confessione di un “giudice penitente”, di “un falso profeta”, di un segmento sbiadito, opaco, spento.
Il protagonista sembrerà porre fine alla menzogna della sua vita, solo nel momento in cui “il demone” del sottosuolo arriverà a perseguitarlo, assumendo le fattezze di una risata, che lo tormenterà anche tra i canali di Amsterdam e che udrà a partire dall’istante in cui “qualcuno si gettò in quelle acque gelide”.
Eppure Clamence non conosce redenzione, il liberarsi dalla maschera non ha come conseguenza nessuna rinascita per lui. Così il suo urlo appare parzialmente rivoluzionario; torna indietro, come un eco, incapace di sfondare la parete della incomunicabilità, dell’indifferenza e della solitudine.
È dunque il racconto di un uomo impenitente, esiliato tra le mura della contraddizione tra il “diritto” alla vita – l’amore per essa – e il suo “rovescio”. Annegato nel mare di un godimento che nel momento in cui è smette di essere. La caduta è espressione di una vita inautentica, ipocrita, falsata, annebbiata. Induce il lettore a trovare una sua dimensione, oltre il dolore, oltre la noia, oltre l’agonia del puntare tutto sulla vanità e la Mensonge. È estraneità, assurdo ma non ancora rivolta. È critica, ma non unione, è espressione di quel Dio non rinvenibile “né più in soffitta né più in cantina”, ma “installato su un tribunale nel fondo di coloro che giudicano e picchiano, soprattutto in nome suo”.
Camus dissacra, disorienta, sconvolge. È pensatore scomodo, costringe il lettore alla riflessione, al senso di vuoto, lo pone dinanzi alla consapevolezza di un divorzio irrimediabile fra l’insopprimibile appetito umano di senso e l’irragionevole silenzio del mondo.
In questo quadro narrato con assoluta verosimiglianza Camus espone di nuovo il suo umanesimo pessimista, ma anche l’importanza degli affetti e dell’agire individuale. In questo contesto, l’uomo risulta incapace di portare avanti la sua battaglia sorda contro il mondo, e non vuole né la libertà né le relative sentenze.
L’autore, però, vorrebbe convincere l’individuo ad abitare la propria libertà, a preservare l’essere nella sua permanenza e determinatezza e lo fa scaraventandolo giù dal precipizio del nichilismo.
Non si può più tornare indietro ed indossare gli abiti di ciò che eravamo, dopo “ la Caduta”, dopo essere stati schiaffeggiati dalle parole di Camus, e dalle struggenti sensazioni di questa opera che come una spina è in grado di conficcarsi nel cuore del lettore. Restituisce una nuova consapevolezza, lascia tutti in sospeso, educando a quell’inciso, “Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio», che segnerà la rivolta.

Mariagrazia Passamano

 

©Mariagrazia Passamano. All rights reserved

Luci

FOTO DI SEBRAN D’ARGENT

Mi nutro di solitudine, mi cibo di provvisorietà, di indefinito, del senso vertiginoso che scaturisce dall’ignoto, dal procedere per tentativi. La vita mi sbeffeggia e mi ributta continuamente nell’assurdo, nel rullo del caso. Mi mostra continui lati liquidi che fuoriescono dalla mia maschera rigida, mentre ombre danzanti e luci filtrate scandiscono il lento avanzare degli eventi.​

Il supremo valore della gentilezza

Le parole gentili non costano nulla. Non irritano mai la lingua o le labbra. Rendono le altre persone di buon umore. Proiettano la loro stessa immagine sulle anime delle persone, ed è una bella immagine.
(Blaise Pascal)

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Poco dopo la morte del grande Nelson Mandela, mi è stato regalato il libro “Mandela, ritratto di un sognatore” di John Carlin, il quale ha avuto la possibilità unica di incontrarlo più volte nel Sudafrica post-apartheid, negli anni cruciali – dal 1990 al 1995 – in cui Mandela da una parte ha dovuto fronteggiare ostacoli terribili, ma dall’altra ha raccolto i suoi più grandi successi. Come corrispondente dal Paese africano, Carlin ha raccontato non solo il lato ufficiale-istituzionale del Madiba, ma anche quello umano, la sua solitudine, le sue tante battaglie e ciò che mi ha più colpito è la frase che chiude il libro: “grazie anche, come sempre, a Sue Edelstein e a mio figlio James Nelson Carlin, che spero leggerà questo libro un giorno e imparerà dal suo immortale omonimo il supremo valore della gentilezza”.

Ciò che il giornalista inglese ricorda di più di Nelson Mandela è dunque la sua gentilezza, la sua capacità di essere sempre affabile e cordiale con tutti. Secondo John Carlin è stato anche un lato vincente del presidente africano, poiché con i suoi modi cauti e gentili riusciva a calmare i suoi interlocutori, e spesso anche i suoi nemici politici, e a dare loro la sensazione di essere accolti, compresi, rispettati. 
La gentilezza è un valore supremo ma rappresenta anche, senza alcun dubbio, l’unica probabile chiave d’accesso alle altre persone, un ponte tra due universi, la possibilità di stabilire un incontro, un modo per valorizzare l’altro, restituendogli una percezione cortese del mondo. Non è solo cortesia però, la gentilezza è qualcosa di più profondo, è un esercizio costante alla positività, alla possibilità, ad un senso di fiducia nella vita, è un pensiero rivolto al bene che diventa atto rigenerante, speranza, opportunità salvifica.

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Foto di Elliot Erwitt, Cuba

Viaggiando sempre con valigie pesantissime ho costatato che sono state pochissime, in giro per il mondo, le volte in cui qualcuno mi abbia aiutato ad alzare i miei bauli con le rotelle. E questo mi ha fatto riflettere sulla scarsa importanza che diamo al valore della gentilezza. Alzarsi per cedere il proprio posto ad un anziano non è buonismo, ma un gesto affascinante, di grande potenza e bellezza. Aiutare qualcuno che si è perso indicandogli la strada non è una perdita di tempo è una terapia che fa bene all’anima. I tedeschi per definire la parola gentilezza usano il vocabolo Freundlichkeit, amichevolezza (cordialità) e anche Liebenswürdigkeit con l’accentuazione del significato di amore. Mi piacciono molto questi vocaboli, perché non si può immaginare gentilezza senza amore inteso come filía appunto. È gentile colui che è capace di pensieri cordiali, amicali, di accoglienza e di premura. Arthur Schopenhauer , a proposito della cordialità e bontà, affermava: “il carattere buono [… ]vive in un mondo esterno omogeneo alla sua natura: per lui gli altri non sono un non-io, bensì io-un’altra volta. Perciò il rapporto originario tra lui e ogni altro è amichevole: egli si sente intimamente affine a tutti gli esseri, prende parte diretta al loro bene e al loro male e fiduciosamente presuppone in loro la medesima partecipazione”. L’altro come l’estensione del proprio io, e come proiezione della propria bontà secondo il filosofo tedesco dunque. Potesse la gentilezza concretizzarsi in un gesto, questo sarebbe una carezza, un gesto di tensione verso l’altro, un gesto che fa da mezzo, da incontro appunto. Il contrario della gentilezza non è lo schiaffo, è un non gesto, un non facere, una resistenza, una riluttanza, la chiusura, un recinto senza uscita. È lo sguardo che non si posa sull’altro, incapace di risalire le mura dell’individualismo, della mediocrità e dell’ autoreferenzialità. La gentilezza ha quindi come presupposto essenziale l’apertura, la fiducia, la forza, il movimento, l’atto di creare, l’andare verso. L’assenza di essa è lo stato in luogo, un luogo fittizio perché senza l’altro noi non saremo altro che percezione non reale della nostra essenza.

La gentilezza mentale è dunque preliminare rispetto a quella gestuale, comportamentale  e anche a quella verbale. La persona gentile potrà essere istruita o meno, poco conta, penserà sempre con cura alle parole da usare, perché capace di comprendere la potenza tanto salvifica, quanto distruttrice delle stesse. La gentilezza fa da filtro anche nella scrittura, si può avere un tono ironico, sarcastico e anche polemico senza perdere il senso dell’armonia, dell’amabilità, di umanità .

Oggigiorno questo valore è anticonvenzionale, viene visto quasi con sospetto, è sinonimo di arrendevolezza, sentimentalismo, fragilità, mielosità, segno di debolezza. Un gesto gentile viene quasi interpretato come finalizzato, manipolativo, volto ad un obiettivo determinato. Ci si sente più, tragicamente, rassicurati dalla cattive maniere, dall’indifferenza, dall’arroganza, dalla violenza verbale, dalla rozzezza. L’assenza di gentilezza viene vissuta come manifestazione di potenza, di personalità, di carattere. E così stiamo morendo tutti di solitudine, rassegnati all’individualismo, alla superficialità, alla poca umanità, ai toni rigidi, polemici, chiusi, irrispettosi, ignorando gli effetti benefici della gentilezza sulla salute psicofisica e trascurando la  sua grande forza antidepressiva. In Italia nel 2000 è stato istituito un “Movimento italiano per la gentilezza” con l’obiettivo di diffondere la gentilezza tra i concittadini, insieme al senso civico e al rispetto delle regole, “nel quadro di una più armonica convivenza tra gli uomini”. Mentre in Giappone, precisamente a Tokyo, nel lontano 1988, è nata la giornata mondiale della gentilezza – che si festeggia il 13 novembre – grazie al Japan Small Kindess Movement.

Facciamo esercizi di bellezza: pratichiamo la gentilezza.

Mariagrazia Passamano

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Tina Modotti: una vita “di troppa arte”

Tina Modotti

Tina Modotti, hermana, no duermes, no, no duermes:
tal vez tu corazón oye crecer la rosa
de ayer, la última rosa de ayer, la nueva rosa.
Descansa dulcemente, hermana.
La nueva rosa es tuya, la nueva tierra es tuya:
te has puesto un nuevo traje de semilla profunda
y tu suave silencio se llena de raíces.
No dormirás en vano, hermana.
Puro es tu dulce nombre, pura es tu frágil vida,
de abeja, sombra, fuego, nieve, silencio, espuma,
de acero, línea, polen, se construyó tu férrea,
tu delgada estructura.
El chacal de la alhaja de tu cuerpo dormido
aún asoma la pluma y el alma ensangrentadas
como si tú pudieras, hermana, levantarte,
sonriendo sobre el lodo.
A mi patria te llevo para que no te toquen,
a mi patria de nieve para que tu pureza
no llegue al asesino, ni al chacal, ni al vendido:
allí estarás tranquila.
¿Oyes un paso, un paso lleno de pasos, algo
grande desde la estepa, desde el Don, desde el frío?
¿Oyes un paso de soldado firme en la nieve?
Hermana, son tus pasos.
Ya pasarán un día por tu pequeña tumba,
antes de que las rosas de ayer se desbaraten;
ya pasarán a ver los de un día, mañana,
donde está ardiendo tu silencio.
Un mundo marcha al mundo donde tú ibas, hermana.
Avanzan cada día los cantos de tu boca
en la boca del pueblo glorioso que tú amabas.
Tu corazón valiente.
En las viejas cocinas de tu patria, en las rutas
polvorientas, algo se dice y pasa,
algo vuelve a la llama de tu adorado pueblo,
algo despierta y canta.
Son los tuyos, hermana: los que hoy dicen tu nombre,
los que de todas parte del agua, de la tierra,
con tu nombre otros nombres callamos y decimos.
Porque el fuego no muere.

Pablo Neruda

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Tina Modotti, Donna di Tehuantepec, 1928

Tante, troppe, le affinità tra me e questa artista straordinaria. L’amore per il Messico, la Russia e la Spagna, tre Stati vissuti intensamente da entrambe. E poi l’amore per la fotografia che diventa espressione onirica di una speranza, testimonianza di una realtà che si desidera intrappolare ed afferrare per personalizzarla, per stigmatizzarla; una forma di cannibalismo artistico, l’ossessione per la fotografia, che spinge l’osservatore a voler possedere ciò che il suo sguardo penetra e ad ingurgitare quel flusso vitale che non si può arrestare, che non si può placare.

La fotografia però non fu mai vissuta dalla Modotti come una forma d’arte, infatti non era d’accordo quando le parole arte e artistico venivano usate in riferimento al suo lavoro, sosteneva:”mi considero una fotografa e niente di più”.

Una donna rivoluzionaria, bellissima, scomoda, una donna a cui l’Italia, ancora oggi, non accenna ad abituarsi. L’Italia delle ombrelline, delle veline, delle letterine, non può essere in grado di buttar giù una donna che non accetta di essere oggetto, mero feticcio, scarto. Non può accettare il nudo di una donna libera, ma ipocritamente, è capace di idolatrare la nudità finalizzata e strumentalizzata.
Tina Modotti nasce a Udine il 17 agosto 1896 nel popolare Borgo Pracchiuso, da famiglia operaia aderente al socialismo di fine Ottocento. Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, lasciandosi alle spalle un’adolescenza da dimenticare. In America, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy. Durante una visita all’Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si sposa nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l’arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d’incontro per artisti e intellettuali liberali.
Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger’s Coat, per la regia di Roy Clement e, in questo periodo incontra Edward Weston, sarà lui a cambiarle per sempre la vita. Tina si appassiona alla tecnica fotografica, posa per l’artista, e intanto osserva, studia e fa suoi gli insegnamenti di Weston.
Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo la affascinerà. Alla fine dell’anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che sarà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo.
A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston si rincontrano e decidono di vivere liberamente la loro storia. Arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. La Modotti ebbe modo, in questo periodo, di conoscere diversi esponenti dell’ala radicale del comunismo, e la pittrice Frida Kahlo. Indelebile rimarrà la sua mostra che venne venne pubblicizzata come “La prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico”: fu l’apice della sua carriera di fotografa. All’incirca un anno dopo, fu costretta a lasciare la macchina fotografica dopo l’espulsione dal Messico, a parte poche eccezioni, non scattò più fotografie nei dodici anni che le rimanevano da vivere.
Esiliata dalla sua patria adottiva, per un periodo la Modotti viaggiò in giro per l’Europa per poi stabilirsi a Mosca, in Russia, dove si unì alla polizia segreta sovietica, che la utilizzò per varie missioni in Francia ed Europa orientale e successivamente si trasferì in Spagna nel periodo della guerra civile del 1936. In seguito lasciò la Spagna, per tornare in Messico sotto falso nome, dove morì nel 1942, forse colpita da un infarto in taxi mentre tornava a casa, anche se la stampa scandalistica messicana ipotizzò un avvelenamento da parte dell’amante Vidali, che avrebbe pianificato l’omicidio a causa dei numerosi segreti condivisi con l’artista.

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Frida Kahlo e Tina Modotti, Mexico 1928

Una donna che ha amato Mosca, la Spagna ma soprattutto Frida Kahlo e il Messico nascosto e oscuro degli indigeni; il Messico che come le sirene di Ulisse, non concede più pace ai suoi naviganti, ai suoi tanti amanti e ancor meno ai suoi esiliati. Immagino le due donne camminare lente tra la polvere delle strade di Coyoacan, sento il suono delle loro risate, il peso dei loro pensieri. Entrambe morte in Messico a 12 anni di distanza, donne sventurate ed immortali, coraggiose, anticonvenzionali nonostante il loro profondo legame con le tradizioni dei popoli. Pittrice una e fotografa l’altra, forse amanti, forse no, sicuramente però creature complici e rivoluzionarie.
Rimane la loro energia di donne in rivolta, ma forse più di tutto la loro esistenza mai sprecata, folle, di donne libere ed indomite, fin troppo moderne anche per i nostri tempi, caratterizzati ancora da un logica arrugginita di femminismo malato e di maschilismo pervasivo.

Rimane il ricordo di questa donna eccezionale, e della sua esistenza vissuta “con troppa arte”, ma, contrariamente a quanto da Lei sostenuto, rimane anche la sua arte; rimane il suo nome, con il quale “altri nomi tacciamo e diciamo perché non muore il fuoco”.

Mariagrazia Passamano

Lo straniero

Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? Tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!
Charles Baudelaire, Lo straniero

Josef Koudelka

Straniero: parola a me cara. Sul mio documento d’identità alla voce segni particolari avrei dovuto chiedere di aggiungere la connotazione di straniera. É un tratto caratterizzante la mia persona da sempre. La mia condizione richiama quella dell’esule, della persona in eterno moto, di Medea. Sono nata straniera, in terra straniera, da genitori stranieri. O meglio sono nata forestiera. Anche nel mio amato paese, ero quella che “veniva da fuori”, e poco contava che mia madre fosse di un paese vicino e mio padre comunque campano. Il mio sangue era misto, non vantavo origini pure, i miei avi erano anche loro discendenti dei sanniti, ma non contava, perché basta un nulla, un elemento difforme, non corrispondente, mancante, per essere considerato “straniero”, ovvero diverso, estraneo, strano. Strano, perchè in fondo l’elemento della stranezza è la lettera scarlatta dello straniero, basti pensare alle coppie corrispondenti di termini straniero/strano in italiano, ètranger/étrange in francese, stranger/strange in inglese, fremder/fremd in tedesco. Lo straniero rappresenta, rispetto alla massa, un elemento di “non ordinarietà”, di singolarità. Ma non ordinario, estraneo in relazione a chi o a cosa? Straniero rispetto a quale metro di paragone?
Lo straniero è colui che si imbatte contro un ordine precostituito di consuetudini, di convincimenti e talvolta di pregiudizi. È l’elemento di diversificazione rispetto all’ovvio, al comprovato. È l’ascia che va a lesionare il muro del nichilismo pervasivo delle comunità fondate sull’abitudine. Lo straniero è il silenzio in mezzo al frastuono, può rifugiarsi nei boschi come il personaggio shakespeariano di Ermia per evitare i severi ed ingiusti ordini del padre, oppure arrivare dal mare come Odisseo. È l’osservatore “barbaro” che può alterare e guastare il nostro assetto politico e sociale. È colui che è fuoriuscito dal coro, dal gruppo dei pari, è il pentito, il condannato e l’esiliato. É colui che si sente forestiero in un corpo che non riesce ad abitare, è l’uomo che puzza agli angoli delle strade, un pazzo qualsiasi del mio paese che errante si aggira tra gli antichi ruderi di una realtà altra, incapace di distinguere tra ciò che è dentro e ciò che è fuori il suo delirio. Si può essere stranieri rispetto all’esistenza, alla felicità, alla verità, alla pace. L’errore più grande è forse quello di pensare di non esserlo, è la ricerca dell’omologazione e la rinuncia alla multiformità. L’incubo è quello di provare orrore rispetto alla propria condizione di “forestiero”, di creatura transeunte e “meticcia”, buttata qui per caso, con un destino ignoto ed un’origine ancora più incerta. Per brevi tratti ci troveremo a condividere con altre genti lo stesso destino, camminare sullo stesso suolo, parlare la stessa lingua, e tutto questo ci aiuterà a sentirci meno soli, a sentirci parti di un tutto, di viverci come “cittadini”; è un modo per percepire meno vicina l’ora in cui tutto finirà e per impreziosire lo svolgimento, la narrazione, il viaggio. In questo sputo chiamato vita, in questa parentesi incerta tra il morire e il dormire rimaniamo tutti in attesa, preservando la speranza di imbatterci come Odisseo in Nausicaa, in colei che non fugge, che rimane immobile, tranquilla dinanzi allo sconosciuto sporco di salsedine ed in colei capace di contenere e di accogliere l’urlo di sgomento dell’errante.

Mariagrazia Passamano

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RENATO GUTTUSO, Sedia rossa 1968

In questo modo o in quel modo,
Che convenga o non convenga,
Potendo a volte dire ciò che penso,
E altre volte dicendo male alla rinfusa,
Vado scrivendo i miei versi senza volere,
Come se scrivere non fosse una cosa fatta di gesti,
Come se scrivere fosse una cosa che mi capitasse
Come prendere il sole fuori.
Cerco di dire ciò che sento
Senza pensare a cosa sento.
Cerco di accostare le parole all’idea
E di non aver bisogno di un corridoio
Del pensiero per le parole.
Né sempre riesco a sentire ciò che so che devo sentire.
Il mio pensiero solo molto lentamente attraversa il fiume a nuoto
Poiché gli pesa l’abito che gli uomini gli hanno fatto usare.
Cerco di spogliarmi di ciò che ho imparato,
Cerco di dimenticare il modo di ricordare che mi hanno insegnato,
E raschiare la tinta con cui mi hanno dipinto i sensi,
Disimballare le mie vere emozioni,
Sbrogliarmi ed essere io, non Alberto Caeiro,
Ma un animale umano che la Natura ha prodotto.
E così scrivo, desiderando sentire la Natura, non come un uomo,
Ma come chi sente la Natura, e nient’altro.
E così scrivo, ora bene, ora male,
Ora cogliendo ciò che voglio dire, ora sbagliando,
Cadendo qui, sollevandomi là,
Ma andando sempre per il mio cammino come un cieco ostinato.
Tuttavia, sono qualcuno.

Fernando Pessoa

E se fosse arrivato il nostro momento?

Per la componente femminile del genere umano è giunto il tempo di assumere un ruolo determinante nella gestione del pianeta. La rotta imboccata dal genere umano sembra averci portato in un vicolo cieco di autodistruzione. Le donne possono dare un forte contributo in questo momento critico.

Rita Levi-Montalcini

Sebran D'argent

Foto di Sebran D’Argent

Oltre cento donne in Italia ogni anno vengono uccise da uomini, quasi sempre quelli che sostengono di amarle. Negli ultimi dieci anni le donne uccise in Italia sono state 1.740, di cui 1.251 in famiglia. Sono 3 milioni e 466 mila in Italia, secondo l’Istat, le donne che nell’arco della propria vita hanno subito stalking, ovvero atti persecutori da parte di qualcuno, il 16% delle donne tra i 16 e i 70 anni. Questi numeri non possono non farci riflettere. Ho seguito alcune cause riguardanti i reati di “atti persecutori” e “maltrattamenti in famiglia” e va detto che purtroppo molte volte le donne hanno denunciato e chiesto aiuto, ma che non ci sono state risposte adeguate dal punto di vista istituzionale. Non voglio però soffermarmi sul profilo giuridico e processuale di detti crimini, ma su un’analisi di tipo culturale. Oltre alle gravi patologie di tipo psicologico che, nella maggior parte dei casi, caratterizzano i comportamenti degli autori di abuso, violenze, maltrattamenti, etc., non si può negare che alla base di tali condotte vi sia infatti, anche, un atteggiamento culturale che si sostanzia nella negazione dell’altro come soggetto indipendente e alienus. Il meccanismo mentale che è alla base della pretesa di appropriazione si può tradurre nel considerare l’altro come una proiezione di un nostro bisogno o pulsione. La spinta della pulsione riduce il valore dell’oggetto a uno strumento dell’esigenza di soddisfacimento dell’individuo. Quello che conta è dunque la soddisfazione della pulsione rispetto alla quale l’esistenza particolare risulta totalmente indifferente. Il partner diviene in tal modo una res sulla quale esercitare il nostro dominio e attraverso cui soddisfare i nostri bisogni. Una mancanza gravissima dei nostri tempi credo sia la trascuratezza riservata all’educazione sessuale e ai “discorsi intorno all’amore”. Le scuole hanno bisogno di pedagogisti, di filosofi, di psicologi e di antropologi; queste figure sono essenziali per sviscerare alcune problematiche complesse come il rispetto di se stesso e dell’altro. È un errore gravissimo pensare che la scuola sia solo un centro di nozioni, di voti e di esami. Anche il bullismo nasce dalla sopraffazione, e dalla volontà di annullare l’altro come centro di identità e di diversità. Bisogna educare al rispetto dell’altro e tentare di sostenere e supportare i ragazzi che mostrano maggiori difficoltà in tal senso. Nelle scuole è necessario parlare di sessualità e di amore. C’è una confusione impressionante su questi temi. Credo inoltre che anche il mondo femminile sia responsabile di questa cultura “del non rispetto”. Una volta in un mio viaggio da Firenze verso Napoli incontrai una donna napoletana molto bella di circa quarant’anni. Ascoltai tutta la sua telefonata, raccontò a suo figlio di quanto lui fosse importante per lei, di quanto la sua presenza avesse cambiato radicalmente la sua vita e poi chiuse la conversazione dicendo: “però fino a quando non chiederai scusa alla tua ragazza per quel gesto da vigliacco che hai fatto, io non ti rivolgerò più parola”. Poi mi guardò e mi disse: “so che penserai che sono una madre troppo rigida, ma credo fortemente che il rispetto per la donna passi inevitabilmente dal ruolo che le madri hanno nelle vite dei loro figli”. La saggia e combattiva Signora napoletana aveva ragione. Noi donne dobbiamo avere nel cuore le sorti delle altre donne. Siamo responsabili di tutto ciò che sta accadendo. Una cultura maschilista e di sopraffazione prende forma dove manca la DONNA. L’amore nasce dentro di noi e attraverso di noi. Prima di dividere il mondo in donne VITTIME e uomini CARNEFICI pensiamo alla maniera indegna con la quale le politiche italiane ci stanno rappresentando, al maschilismo latente che serpeggia nelle nostre anime, prima di considerare gli uomini gli unici responsabili di tutti i mali del mondo interroghiamoci sull’esempio che diamo ai nostri figli e alle nostre figlie. Molto dipende da noi, dal nostro modo di raccontare la nostra femminilità e le nostre fragilità. Più che una guerra tra generi, a me pare si possa parlare  di una forma di epidemia chiamata “Mancanza di RISPETTO DELL’ALTRO”. La parola rispetto deriva dal latino: respectus, da respicere guardare indietro, composto di re– indietro, di nuovo e spicere guardare. Il rispetto dell’altro infatti presuppone il guardare e l’osservare. Ricominciamo dalla cura di questo valore, dal vivere le altre creature come una possibilità e non come una pretesa, sostenendo chi è più in difficoltà ed educando alla consapevolezza che l’amore può generarsi e crescere solo in una condizione di libertà e di indipendenza. La nostra non deve essere una guerra terminologica, (ministro/a, presidente/a), ma una battaglia culturale tesa a modificare le radici malate della nostra società e del rispetto nei confronti dell’altro e della donna in particolare. Il cambiamento può partire solo da noi e dalla “reinterpretazione” del concetto di “amore“.

Mariagrazia Passamano

Alla ricerca dell’essere

 

“Il tuo dovere è di non consumarti mai nel sacrificio. Il tuo dovere reale è di salvare il tuo sogno. La Bellezza ha anche dei doveri dolorosi: creano però i più belli sforzi dell’anima. Ogni ostacolo sormontato segna un accrescimento della nostra volontà, produce il rinnovamento necessario e progressivo della nostra aspirazione. Abbi il culto sacro per tutto ciò che può esaltare ed eccitare la tua intelligenza. Cerca di provocarli, di perpetrarli, questi stimoli fecondi, perché soli possono spingere l’intelligenza al suo Massimo potere creatore. Possiamo noi racchiuderli nella cerchia della lora morale angusta? Affermati e sormontati sempre”.

Amedeo Modigliani, Lettera a Oscar Ghiglia, Venezia 1905

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Verso il sole, (Piramide del sole,Teotihuacán) 2016

Ripensavo al film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino e a quanto sia rappresentativo dei nostri tempi. È un film senza contenuti. Dove la bellezza regna sovrana. È puro incanto estetico. Non c’è sostanza. È uno scorrere lento di immagini. Poi capisco che Roma sia sempre Roma e quindi da sola (quasi) capace di far vincere un Oscar. Però, la mia domanda di fondo è: ma cosa voleva raccontare il regista? Lo scopo narrativo del film qual era?
Eppure stiamo parlando di un uomo con un talento incredibile. Se ripenso ai suoi primi film, tipo a “Le conseguenze dell’amore”, mi sembra incredibile che ad un certo punto abbia deciso di inserire il pilota automatico e di affidarsi solo ai suoi virtuosismi estetici. Purtroppo però questa è una cosa molto frequente. Leggo pagine di libri, messaggi, note su pagine facebook e talvolta scopro cose scritte anche molto bene ma che non raccontano niente, senza anima. Da un lato penso che siamo tutti un po’ storditi dalla tirannia delle immagini, dall’altro che non siamo più abituati a pensare e a pensarci. Se non siamo a lavoro o in giro a fare shopping, stiamo a casa o con il televisore acceso o con il cellulare in mano a guardare la vita dei vip su instagram o le foto delle vacanze del nostro vicino. E il tempo per non fare niente dov’è?
Abbiamo bisogno di sottrarre. Dobbiamo imparare a togliere, ad asciugare, a rimpadronirci del nostro tempo, di parte di noi. I contenuti non nascono senza il silenzio, senza la capacità di sapersi ascoltare. È attraverso la metabolizzazione degli accadimenti esterni che riusciamo a conoscerci profondamente. Ciò che ci spaventa è sicuramente il nostro inconscio, quello che sentiremmo nelle pause, nei silenzi, sui monti, in riva al mare. Fromm la definiva “la fuga dalla libertà”. Non ha senso fare il viaggio senza scoprire chi siamo e senza capire di che cosa siamo fatti e cosa possiamo donare di noi al mondo. Nello sforzo continuo teso alla scoperta di alcune parti di noi celebriamo l’anniversario della nostra nascita e ripetiamo il rituale del venire al mondo. 
Il nostro dovere reale è quello di salvare i nostri sogni, la nostra essenza, la nostra verità, il nostro desiderio. Dare un senso alla nostra vita significa renderla bella, valorizzarla, impreziosirla, darle una forma, un volto, una consistenza.
La vita infatti di per se non è né bella né brutta, né giusta e né sbagliata; la vita semplicemente può avere senso o non averne alcuno. Ma imparare ad essere esattamente cosa significa?
Mi sono interrogata per anni e anni su questa domanda. È stato il mio tormento costante. Con il tempo ho raggiunto una quasi risposta che si sostanzia in alcune argomentazioni che vi propongo. Il problema è che non c’è una regola, non c’è una via, non c’è un ricettario, istruzioni, non vi è neanche la certezza di riuscire davvero ad imparare ad essere se stessi. La vita tutta prende forma nel tentativo, nella lotta, nella non rassegnazione, nel sentiero che ci può condurre verso la realizzazione di questo desiderio. Mi può essere obiettato allora che il senso non ci sia, dal momento che non si raggiunge mai la nostra essenza. L’errore è proprio questo. L’errore è credere che per essere felici bisogna prendere possesso del nostro essere. La felicità nasce dalla ricerca, dalla fedeltà a se stessi, dal rimanere in ascolto. La disperazione è lontananza dal nostro inconscio, dalla legge del desiderio.
Nelle “Lettere al dottor G.” e nel “Diario di una diversa”, Alda Merini, racconta che nel profondo dell’inferno uno spiraglio di ritrovata umanità fu la psicoterapia condotta all’interno del manicomio con il dottor G., il quale comprese che il modo più incisivo per aiutare la sua paziente potesse essere quello di indurla a scrivere ancora, infatti mise a sua disposizione una macchina da scrivere, convinto che la poesia potesse salvarla e così fu.
La macchina da scrivere come simbolo di vita, di strumento di ritorno a se stessa e alla sua vocazione; come ausilio del suo fervore e mezzo di libertà. La poesia come salvezza, come terapia, come unica soluzione per non cedere difronte a quella condizione di disumanizzazione. La cura del desiderio è l’antidoto contro la malattia. È l’unico farmaco che ci può guarire e che ci tiene lontani dai giochi insolenti, insidiosi e pericolosi della nostra mente. Thanatos è assenza di desiderio, sinonimo di una vita che non diviene mai reale. Negli anni ho scoperto che non c’è niente che mi faccia più male dell’osservare le persone lontane da se stesse e perse in salti acrobatici inutili. Non mi ferisce tanto il non amore, la cattiveria, la mancanza di buon senso, ma la costatazione dell’assenza del desiderio. Mi piacerebbe sempre poter essere un po’ come la figura del Dott. G  e fornire alle persone che incontro e che mi stanno a cuore quella macchina da scrivere per risalire dagli inferi e per continuare a sognare.

Mariagrazia Passamano

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